Luogo Riolo dei Bagni
Riolo dei Bagni, 1943: la famiglia Piazza

Su un muro di fronte alla Rocca di Riolo Terme è possibile leggere una lapide, posata il 10 aprile 1994 per l’anniversario della Resistenza e della guerra di Liberazione, che riporta i nomi di alcuni ebrei che avevano cercato rifugio della piccola cittadina in provincia di Ravenna, senza purtroppo riuscire a sfuggire alla deportazione. 

Tra di loro, Angelo Piazza, sua moglie Margherita Ascoli e la loro figlia Maria Luisa: arrestati il 5 dicembre 1943, vengono portati prima in carcere a Ravenna, poi a San Vittore (Milano) da dove il 30 gennaio 1944 sono deportati ad Auschwitz. Qui, Angelo e Margherita vengono uccisi al loro arrivo, il 6 febbraio, mentre di Maria Luisa si perdono le tracce.

Nel 1946 l’altro figlio della coppia, Rodolfo, scrive un ringraziamento pubblico per Ugo e Lina Cicognani, abitanti di Riolo, che avevano preservato i beni della sua famiglia, per poi consegnarli a lui dopo la fine della guerra.

Sono queste le scarne notizie che si hanno sul tentativo di nascondimento effettuato dalla famiglia Piazza: minime informazioni, da cui è molto difficile ricostruire il percorso che li ha portati da Bologna a quello che allora si chiamava Riolo dei Bagni. 

I pochi altri documenti a disposizione per la ricerca sono il fascicolo riguardante Angelo Piazza depositato presso l’Archivio storico dell’Università di Bologna. Nato a Roma nel 1875, Angelo Piazza studia medicina e nel 1913 si abilita all’insegnamento come libero docente. Sua moglie Margherita Ascoli nasce sempre a Roma nel 1883, la loro figlia Maria Luisa a Venezia nel 1909, mentre del figlio Rodolfo non abbiamo informazioni anagrafiche.

Nel 1917 la famiglia si trasferisce a Bologna perché Angelo era stato chiamato come libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Alma mater. Ma nel 1938, con le leggi razziali, subisce l’epurazione e viene considerato decaduto dall’abilitazione alla libera docenza.

Il fascicolo su lui contiene anche la risposta del figlio Rodolfo alle lettere che l’Ateneo bolognese continua a mandare a suo padre affinché riprenda servizio dopo la guerra: nel 1952 Rodolfo Piazza scrive di cessare queste richieste in quanto il padre è deceduto nel 1944.

Presso l’archivio dello CDEC – Centro di documentazione ebraica contemporanea, con sede a Milano – sono invece conservati i “cartoncini azzurri” con le fotografie dei tre membri della famiglia Piazza deportati e mai ritornati: si tratta dei documenti prodotti da Massimo Adolfo Vitale, direttore del Comitato Ricerche Deportati Ebrei (CRDE) attivo nell’immediato dopoguerra nel cercare informazioni sulle persone scomparse nei campi.

Si trovano nell’archivio di Milano anche altri tre documenti riguardanti Margherita Ascoli, Angelo e Maria Luisa Piazza: certificati in ricordo del loro sacrificio e della loro scomparsa nei campi di sterminio nazisti dati dalle associazioni della Resistenza bolognese nel 1960.

Ricostruire cosa accadde alla famiglia Piazza dopo il 1938 non è facile. In particolare, è molto difficile trovare loro tracce successive all’8 settembre 1943, la data dell’Armistizio, dopo la quale cambiarono i destini degli ebrei italiani. 

Le scelte fatte per trovare una via di fuga sono necessariamente tenute nascoste: non si possono lasciare segni tangibili se si vuole avere una qualche speranza di riuscita. Ciò che è per sua natura celato e illecito, difficilmente lascia tracce. Sono quindi solo le memorie orali o le testimonianze private che possono fornire qualche elemento, oggi, al ricercatore. Ma, a distanza di quasi ottant’anni, queste voci possono riemergere solo per via fortunosa. I buchi, e i vuoti, fanno così parte della ricostruzione storica: i buchi nella documentazione, i vuoti nella vita delle persone. A distanza di tanti anni si sono formate delle lacune che resteranno incolmabili. La sfida è così quella di provare a delineare la vicenda, o almeno alcuni suoi snodi, mantenendo queste aree di assenza e mancata conoscenza, al massimo formulando ipotesi. E lasciandosi meravigliare dall’inattesa emersione di documenti e memorie dalle profondità degli archivi privati.

Grazie alle memorie personali tramandate a Riolo Terme è stato confermato come Angelica (Lina) Ponzoni e suo marito Ugo Cicognani abbiano ricevuto alcuni beni della famiglia Piazza, preservandoli fino alla fine del conflitto. I Cicognani, inoltre, aiutarono a nascondersi la famiglia della sorella di Lina Ponzoni, Valentina, che aveva sposato l’avvocato Aldo Finzi di Bologna. Anche Finzi aveva dovuto abbandonare la professione nel 1938, diventando pittore con lo pseudonimo di Lado, e riprendendo l’attività forense solo dopo il 1945.

Ma a raccontare cosa accadde alla famiglia Piazza è solo alla fine degli anni Duemila un’amica di Maria Luisa, Luciana Negrini, sua collega presso il Collegio San Giuseppe di Bologna, dove erano entrambi insegnanti. In una lettera del 2008 ritrovata nell’archivio di Francesco Berti Arnoaldi Veli – avvocato, ex partigiano di Giustizia e Libertà, attivo nel dopoguerra in varie istituzioni volte a preservare la memoria della Resistenza – Luciana Negrini racconta come Maria Luisa, a differenza del padre, poté continuare a insegnare francese presso il Collegio femminile gestito dalle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù di San Giuseppe. Ma dopo l’8 settembre la situazione si fece pericolosa per gli ebrei a Bologna. Racconta Luciana che l’appartamento dei Piazza in via Indipendenza fu requisito dai nazifascisti. Maria Luisa decide quindi di spostarsi con la famiglia presso l’altra sede del Collegio: a Riolo dei Bagni. Qui, racconta sempre l’amica Luciana, i Piazza affittano un appartamento e il sindaco li aiuta, facendo costruire un finto muro nella propria abitazione, dove i Piazza nascosero i loro beni. 

Luciana scrive che Maria Luisa e i suoi si sentivano sicuri ma lei, conoscendo meglio il territorio, temeva i fascisti, forse pensava possibile una delazione. Si adopera quindi per cercare una via di fuga verso la Svizzera, attraverso il lago Maggiore. Ma quando torna a Riolo vede la sua amica e i suoi familiari caricati su una camionetta dei fascisti. Venuta a sapere che erano stati portati nel carcere di Ravenna, riesce ad andare a visitarli, trovandoli rinchiusi in condizioni pessime e degradanti. Promette di portargli abiti e cibo, recuperandoli anche nella loro casa di Bologna, dove riesce a entrare solo nei momenti che seguono a un bombardamento. Quando cerca di tornare a Ravenna per incontrarli, è troppo tardi, sono stati caricati su un treno. Luciana non lo sa, ma la destinazione è Milano, il carcere di San Vittore.

Il suo racconto prosegue: un po’ di tempo dopo si presenta presso il Collegio San Giuseppe di Bologna un uomo chiedendo di lei. Arriva da Tarvisio e porta un messaggio lanciato da un treno: «Luciana, siamo a Tarvisio ci portano in Slesia. Aiutaci! Fai tutto quello che puoi». Era il convoglio n. 6: una delle poche sopravvissute sarà Liliana Segre.

Luciana cercò di fare davvero tutto il possibile: si rivolse al vescovo di Bologna, che la ascoltò, rispondendo «sa, non è facile parlare coi tedeschi». 

Dopo la guerra, scrive ancora Luciana, le fu possibile ritrovare Rodolfo Piazza, il fratello della sua amica, che era riuscito a salvarsi nascondendosi nei boschi. 

La sua testimonianza si chiude con queste parole: «Una storia vissuta, le suore del Centro sono tutte morte. Io sopravvivo 87 anni forse perché questa storia riviva».