Luogo Cotignola, Ravenna, Emilia Romagna, Italy
Un paese in soccorso degli ebrei

In alcuni casi sono state intere collettività a soccorrere con generosità gli ebrei in pericolo. Uno di questi è quello di Cotignola, piccolo comune della provincia di Ravenna. Qui, il commissario prefettizio Vittorio Zanzi mette in piedi una rete di solidarietà, di cui fanno parte Luigi Varoli e tanti altri concittadini, che va anche oltre i confini del piccolo paesino, estendendosi a tutta la zona circostante, e che coinvolge la società in tutti i suoi strati amministrativi, produttivi, religiosi, sociali. Tutto ciò consente di aiutare un numero elevatissimo di persone: profughi provenienti dal sud della Penisola e sfollati dalle città, perseguitati dal regime fascista, ex prigionieri di guerra, partigiani e appunto ebrei.
Cotignola diviene un luogo di approdo sicuro per intere famiglie di ebrei, che vengono ospitate e nascoste in abitazioni private e possono usufruire di documenti falsi e di carte annonarie per la fornitura di cibo, stampate e vidimate nella tipografia e negli uffici comunali, da personale e da impiegati di svariato orientamento politico, in un momento in cui l’unico denominatore comune è la lotta contro il nazifascismo.
Tra le famiglie che trovano rifugio a Cotignola, negli anni del Secondo conflitto mondiale, vi è la famiglia Ottolenghi, sfollata prima da Torino e poi da Porto Corsini, frazione di Ravenna. «Vivevamo a Torino – nella stessa palazzina della sorella della mamma, zia Isotta Augusta Valabrega sposata Muggia –, e papà era antifascista e massone e proclamava apertamente i suoi orientamenti politici», racconta Luisella Ottolenghi Mortara, figlia di Guido e Ada Valabrega.
Nel 1939 la famiglia Ottolenghi ottiene i visti necessari per un trasferimento in Ecuador, ma nonostante molti dei parenti decidano di emigrare prima dell’entrata in guerra dell’Italia, Guido Ottolenghi sceglie invece di rimanere a Torino. «Papà non volle lasciare l’Italia per due ragioni: la zia Isotta Augusta era malata e non si voleva lasciarla, e poi sosteneva che il fascismo andasse combattuto dall’interno», spiega sempre Luisella. «Nel 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, papà temeva che i francesi bombardassero Torino e decise di farci andare a stare a Marina di Ravenna, nella casa estiva dello zio Giuseppe Ottolenghi che in quel momento si trovava appunto in Ecuador.» A Marina di Ravenna, dove peraltro si trova l’azienda di famiglia, si trasferiscono quindi Guido Ottolenghi e la moglie Ada Valabrega, insieme ai tre figli Luisella, Emma ed Emilio, alla zia Augusta e a suo figlio Aldo Muggia. Con loro ci sarà sempre anche Marie Artus, tata alle dipendenze della famiglia di Guido, e che lo stesso Ottolenghi aveva incluso nello stato di famiglia al momento del censimento degli ebrei, pur non essendo ebrea (per questo motivo si è deciso di non includerla tra gli ebrei salvati a Cotignola).
Il 9 settembre del 1943, il mutato scenario politico induce Guido Ottolenghi a lasciare la città romagnola per tentare la fuga verso sud. Tentativo che però fallisce, costringendo l’intera famiglia a far ritorno a Marina di Ravenna. «In quel settembre – racconta ancora Luisella – erano passati da casa nostra decine di soldati che, dismessa la divisa, avevano lasciato lì da noi i loro abiti e le armi, che papà aveva nascosto dietro le fascine della legnaia.» All’alba del 20 ottobre, però, alcuni soldati tedeschi circondano la casa e irrompono all’interno, proprio in cerca delle armi lasciate dai soldati italiani. Armi che fortunatamente non riescono a trovare. E grazie all’intervento di Guido Guidotti, generale a riposo della Milizia fascista, che conosceva la famiglia, si riesce ad evitare che l’intera famiglia venga arrestata dai tedeschi, per le proprie origini ebraiche. Ma si tratta dell’ennesimo campanello d’allarme che non lascia più dubbi: bisogna andare via subito.
Dopo alcuni giorni di smistamento presso diverse famiglie, gli Ottolenghi vengono infine radunati a Ravenna e subito trasferiti a Cotignola. «Un luogo che non avevamo mai visto, in casa del pittore, scultore, musicista Luigi Varoli. Questa generosa persona era un amico dello zio Giuseppe. Assieme alla moglie aprì la sua casa a tutti i bisognosi e a quelli che erano in pericolo.»
Ai primi di novembre del 1943, poi, parte della famiglia viene nuovamente spostata, mentre il solo Guido Ottolenghi rimane in casa Varoli. «Fummo nuovamente spostati presso la famiglia contadina di Mario Tampieri», ricorda Luisella Ottolenghi.

Vi fummo accompagnati, non lo scorderò mai, in una notte di pioggia battente da Vittorio Zanzi. Rimanemmo lì tutto l’inverno, come sfollati dalla città bombardata, protetti dallo stesso Zanzi. Papà stava invece nascosto in casa Varoli, in un piccolo vano cui si accedeva da una porticina in fondo all’ultima camera da letto e dalla cui finestrella avrebbe potuto fuggire in caso di perquisizione.

Dopo qualche mese Guido Ottolenghi riesce anche a procurarsi delle carte d’identità in bianco e timbri del Comune di Milano, che riempie di suo pugno con dei nomi inventati. «Divenimmo la famiglia Ferrero», racconta Luisella. «Zanzi ci procurò anche false carte annonarie. Lui e sua moglie, Serafina, due generose persone disposte ad aiutare tutti, erano perfettamente coscienti di ciò che facevano.»
In casa Tampieri gli Ottolenghi trascorrono dei mesi sereni, a stretto contatto con la famiglia che li ospita, e che almeno inizialmente disconosce le loro origini ebraiche. Ben presto tuttavia, per evitare possibili difficoltà, essendo in molti, Augusta e Aldo si separano dagli altri e si stabiliscono dai mezzadri Drei, mentre Guido Ottolenghi continua a rimanere presso l’abitazione di Varoli.
Dopo circa cinque mesi dall’arrivo a Cotignola, anche Mario Tampieri viene a sapere che gli Ottolenghi sono ebrei, e sebbene sia consapevole dell’estremo rischio che sta correndo, insiste comunque perché rimangano nascosti in casa sua. Tuttavia, lo stesso Guido non si sente ormai sicuro, in quanto la liberazione appare ancora lontana e anche a Cotignola si vanno concentrando fascisti ravennati che potrebbero riconoscere qualcuno di loro. Decide quindi di organizzare il trasferimento della propria famiglia a Roma, dove li attende una cara amica della moglie, Rita Giacobbe, che li aiuta anche nella pianificazione del viaggio. Una volta in salvo nella Capitale, Guido avverte però il desiderio di continuare la sua azione antifascista, e decide di arruolarsi nella Brigata Ebraica.

I de Martino-Macchioro
Ma ancor prima degli Ottolenghi, a Cotignola aveva trovato rifugio la famiglia di Ernesto de Martino, allora professore di Storia e Filosofia presso il liceo scientifico Arcangelo Scacchi di Bari, che dopo la guerra diventerà un’importante figura della cultura italiana del Novecento. De Martino aveva sposato una donna ebrea, Anna Macchioro (figlia di Vittorio, storico delle religioni e suo ex docente), e arriva a Cotignola nell’estate del 1943, per raggiungere la propria famiglia. Qui, infatti, erano già sfollate la moglie Anna, le due figlie, Vera e Lia, e la suocera, Rosita Parra, originaria proprio della zona. E a Cotignola sia Ernesto sia la moglie, sia il fratello di lei, Aurelio Macchioro, si impegnano anche sul fronte della resistenza, a sostegno del locale Comitato di Liberazione Nazionale (Cln).
La famiglia de Martino vive inizialmente nel centro del paese, in via Roma, ospitata dalle sorelle Amadei. Successivamente, invece, si trasferisce in campagna, nell’abitazione di Luigi Cornacchia, e vi rimane fino al termine della guerra. Ed è proprio nel periodo vissuto in Romagna che de Martino lavora a Il mondo magico, lavoro poi pubblicato nel 1948, e il cui manoscritto viene salvato dalle rovine di Cotignola grazie alla moglie Anna.

Gli Oppenheim
Dopo l’8 settembre, a Cotignola gli arrivi di famiglie ebree, molte delle quali di provenienza o origine bolognese, si intensificano, e prende così forma quella ampia rete di solidarietà composta da tutti coloro che, di volta in volta, vengono coinvolti dal commissario Vittorio Zanzi nella sua attività di protezione.
All’inizio di ottobre del 1943 arriva a Cotignola la famiglia di Marco Oppenheim, medico ebreo di origini lituane, ma nato a Trieste, che giunge nel piccolo centro romagnolo insieme alla moglie, Silvia Schwarz, alla suocera, Luigia Macchioro Schwarz, e alla figlioletta, Lea.
Aiuto primario al Sant’Orsola di Bologna e assistente universitario, Marco Oppenheim è stato allontanato dalla professione a causa delle leggi razziali. Espulso quindi dall’università di Bologna e cancellato dall’albo dei medici, si è trasferito con la moglie e la figlia a Parigi, dove lui ha lavorato come ricercatore, presso l’Istituto di Ricerca Superiore, e la moglie come sarta.
Nel 1943, quando ormai sembrano destinati alla cattura, per una serie di circostanze fortunose, e soprattutto grazie all’interessamento di un membro dell’Ambasciata italiana a Parigi, il conte Donini, con cui la moglie Silvia è riuscita a mettersi in contatto, gli Oppenheim riescono a evitare la deportazione e tornano in Italia, stabilendosi prima in Friuli, poi a Bologna e infine proprio a Cotignola. Nel piccolo centro della provincia di Ravenna, infatti, si trova già Rosita Parra, moglie di Vittorio Macchioro e cognata di Luigia Macchioro Schwarz. Tra gli Oppenheim-Schwarz e i de Martino-Macchioro c’è quindi un legame di parentela.
Giunti a Cotignola, Zanzi sistema Marco Oppenheim, la moglie Silvia, la madre di lei e la loro figlia Lea, di sette anni, in un primo tempo presso l’abitazione di Giuseppe Liverani, in via Breda. Ma poiché tale collocazione non presenta sufficienti garanzie di sicurezza, Zanzi li indirizza successivamente a don Antonio Costa, parroco di Budrio, frazione del comune di Cotignola. Qui Marco Oppenheim, che si rifiuta di assumere false identità, vi rimane fino alla liberazione del 10 aprile 1945. E, indossando semplicemente sulla manica della giacca una fascia bianca sormontata da una croce rossa, si prende cura in modo gratuito della salute degli abitanti locali e non solo: il professore bolognese cura anche dei soldati tedeschi. Il medico condotto, d’altronde, non resistendo alla pesante atmosfera e ai rischi di una zona a ridosso del fronte, aveva abbandonato la zona a lui affidata. Soprattutto nel 1944, infatti, Cotignola occupa una posizione geografica particolarmente infelice, perché posta vicino al fiume Senio, sul quale si attesta appunto la linea del fronte decisa dagli Alleati, in attesa della ripresa dell’offensiva programmata per la primavera successiva. Il paese si trova quindi, a partire dall’autunno di quell’anno, al centro di pesanti bombardamenti aerei e terrestri.

I Coen Pirani
Nel frattempo, nel novembre del 1943 è giunta a Cotignola anche la famiglia di Renato Coen Pirani. Originario di Pisa, Renato Coen Pirani è ginecologo e libero docente universitario a Bologna, città in cui abita insieme alla moglie, Nella Vitali, e alla figlia, Emma. Emma si è laureata in Lettere nel novembre del 1931 con una tesi dal titolo Le allegorie nella pittura toscana del Trecento ed è impiegata presso la biblioteca dell’Università di Bologna.
Sia il padre sia la figlia devono rinunciare alle rispettive attività lavorative a causa delle leggi razziali: il 12 giugno del 1939 viene infatti notificata a Renato la «decadenza dall’abilitazione della libera docenza», mentre già il 13 febbraio di quello stesso anno un decreto del ministero dell’Educazione Nazionale aveva sancito la cessazione del servizio per Emma.
La famiglia Coen Pirani resta comunque a Bologna fino al settembre del 1943. Né Renato né la moglie vogliono infatti lasciare l’Italia, ed Emma, pur avendo già fatto domanda per l’emigrazione all’Emergency Committee di New York, decide di non lasciare i suoi genitori.
Dopo l’8 settembre, tuttavia, i Coen Pirani devono andare via da Bologna, e trovano riparo prima nella campagna di Faenza, a San Silvestro, presso la casa del dottor Stacchini, collega e amico di Renato, e successivamente a Cotignola, su indicazione del locale Cln. Qui, la famiglia del ginecologo bolognese, affidata a Vittorio Zanzi, viene inizialmente ospitata da Luigi Varoli, e in un secondo momento sistemata dallo stesso Commissario prefettizio nella canonica di don Domenico Bucchi, parroco di San Severo in Serraglio. Canonica nella quale i Coen Pirani rimangono nascosti per cinque mesi prima di trasferirsi a Venezia, nell’aprile del 1944, in cerca di un rifugio più sicuro. Il tutto sotto la copertura di documenti falsi (Emma assume il cognome Petrucci e risulta come casalinga di origini napoletane) forniti loro proprio da Vittorio Zanzi. «Quando nell’aprile del 1944 ritenemmo opportuno cambiare zona il signor Zanzi si assunse la responsabilità di munirci di tutte le carte necessarie al viaggio e a una sistemazione altrove sotto falso nome», racconta Emma Coen Pirani.

Ma in lui trovammo qualcosa di più che un aiuto materiale: nella sua profonda umanità trovammo una comprensione, un conforto che nelle angosciose tenebre di quei giorni ci diedero la forza di guardare al futuro con rinnovata fiducia. Nella sua casa e in quella del professor Varoli ritrovammo in quei giorni una consonanza ai nostri pensieri e ai nostri sentimenti, che ci ridonavano quella fiducia nell’umanità, in noi così duramente scossa, che ci aiutò a vivere, quanto gli aiuti materiali.

Al termine della guerra, Renato Coen Pirani viene reintegrato come docente dell’Università di Bologna, il 7 giugno del 1945, e in quello stesso anno anche la figlia Emma ottiene nuovamente il proprio posto di lavoro presso la Biblioteca universitaria dell’Ateneo bolognese, di cui diviene direttrice nel 1948. È solo l’inizio di un prestigioso percorso professionale che la porterà alla direzione della Biblioteca estense di Modena (1949) e della Biblioteca nazionale braidense di Milano (1955), nonché al ministero della Pubblica Istruzione, dove ricopre l’incarico di ispettrice centrale, dal 1971 al 1973.

Giuseppe e Clara Zuckermann
Sempre nell’autunno del 1943 arriva a Cotignola anche Giuseppe “Peppino” Zuckermann, commerciante di tessuti, con la moglie, Clara Jacchia, e con le figlie Mirella e Franca. «Nel 1943, per sfuggire alle persecuzioni razziali che anche a Bologna erano ormai in pieno sviluppo, ci rifugiammo a Lugo ove però non potemmo fermarci che pochi mesi a causa dell’intensa sorveglianza della milizia fascista», raccontano Clara e Giuseppe Zuckermann. A Lugo gli Zuckermann sono stati inizialmente nascosti presso l’istituto San Giuseppe, delle suore di San Francesco di Sales, ma poi i due genitori hanno dovuto separarsi dalle bambine, per motivi di sicurezza, e sono stati ricoverati all’ospedale Civile del paese, presso il dottor Tomiselli, che ha creato loro delle false ingessature.

Successivamente – raccontano ancora gli Zuckermann – essendo venuti a trovarci nella dolorosa necessità di abbandonare questi precari nascondigli perché non offrivano più quel minimo di sicurezza necessaria, ci rivolgemmo al Cln di Lugo e […] da alcuni componenti fummo indirizzati a Cotignola al signor Vittorio Zanzi il quale, con la generosità che lo distingueva e che molti ebbero il modo di tanto apprezzare, si mise immediatamente a nostra disposizione e possiamo tranquillamente affermare che dobbiamo al suo appoggio e al suo interesse se siamo riusciti a sopravvivere alla tremenda bufera.

È nella frazione di Barbiano, distante alcuni chilometri da Cotignola, che Vittorio Zanzi trova una sistemazione per gli Zuckermann, presso l’abitazione di Michele Montanari. E per mesi la famiglia bolognese viene costantemente assistita e aiutata dal Cln, dallo stesso commissario Zanzi, e da alcune persone del posto.

Ad alleviare il nostro penoso isolamento si adoperarono in modo particolare le famiglie Alberani e del dottor Rambelli che non si trattenevano dall’affrontare disagi e pericoli per portarci generi alimentari, medicine, e soprattutto ci consolavano e ci confortavano. […] Potemmo rifugiarci e rimanere nascosti fino a quando, in seguito a un furioso bombardamento di Cotignola – che fu rasa al suolo – anche la casa dei Montanari venne distrutta

spiegano Clara e Giuseppe Zuckermann. È il 9 aprile del 1945, e scampati a quel violento bombardamento anche gli Zuckermann possono festeggiare, l’indomani, la liberazione e la fine dell’incubo della deportazione. «Ritornati a Lugo in seguito alla liberazione degli alleati, abbiamo avuto la gioia di riabbracciare il signor Vittorio Zanzi che era stato, insieme a tante altre persone, l’artefice della nostra salvezza.»

Ubaldo, Giuseppe ed Ettore Lopes Pegna
Tre nuovi arrivi si registrano a Cotignola il 10 dicembre del 1943, quando i fratelli Giuseppe ed Ettore Lopes Pegna raggiungono in bicicletta il piccolo paesino romagnolo insieme al loro padre, Ubaldo. «Noi, che eravamo i primi due di tre fratelli, avevamo rispettivamente venti e diciotto anni», ricordano Giuseppe ed Ettore. I Lopes Pegna provengono dalla frazione di Colunga, presso San Lazzaro di Savena, dove si sono rifugiati un mese prima, dopo aver lasciato Bologna.
Ubaldo Lopes Pegna, fiorentino di nascita ma portoghese di origini, ebreo non osservante, è stato insegnante di Filosofia e Pedagogia all’Istituto magistrale di Ferrara. Antifascista convinto, già in passato si è mostrato decisamente avverso agli obblighi imposti dal regime. Avversione che gli è valsa un lungo “esilio” in diverse zone della Penisola: da Vigevano (Pv), dove ha incontrato e sposato Giovanna Vittadini, a Sassari, dove nasce Giuseppe, il primo figlio; da Castiglione delle Stiviere (Mn), dove nasce il secondo figlio, Ettore, a Reggio Calabria, dove invece nasce Benedetto, così chiamato in onore alla profonda amicizia che lega Ubaldo al Croce; e infine Grosseto e poi Ferrara, città in cui la famiglia Lopes Pegna si trova al momento della promulgazione della legislazione razziale fascista.
Dopo l’espulsione di Ubaldo (e dei tre figli) dalla scuola pubblica, i Lopes Pegna si sono trasferiti a Bologna, dove hanno comprato una cartoleria in via Zamboni, a nome di Giovanna che risultava come “ariana”. Non molto dopo l’8 settembre, sono però stati costretti a lasciare il capoluogo emiliano per rifugiarsi come sfollati in un posto più sicuro, e precisamente nella frazione di Colunga, come già visto.
«Ci trovavamo a Colunga dall’8 novembre come sfollati, presso dei contadini», raccontano ancora Giuseppe ed Ettore Lopes Pegna, in una loro lettera inviata alle istituzioni di Cotignola, in occasione delle celebrazioni per il trentacinquesimo anniversario della Liberazione.

Le notizie che ci giungevano da Bologna sugli ebrei non fuggiti dalle proprie abitazioni e l’ultima, riguardante il nostro appartamento, cui erano stati apposti i sigilli dagli agenti dell’Ufficio politico della Questura, ci spronarono a lasciare anche il rifugio di Colunga. Nostra madre, col fratello minore, partì per la Lombardia e si sistemò presso amici in un paese della Lomellina. Noi tre, gettati i documenti di riconoscimento (avremmo dato, a una richiesta, generalità false), partimmo per Cotignola, indirizzati da un amico, signor Maltoni, al signor Vittorio Zanzi, il quale ci avrebbe a sua volta indirizzato a un nucleo di partigiani, che si andava organizzando.

I Lopes Pegna rimangono a Cotignola per una sola settimana, dal 10 al 17 dicembre del 1943, nascosti in una “squallida” e povera camera, vicino piazza Mazzini, nel centro del paese, ospitati da Francesco Gallina, e in attesa del momento opportuno per unirsi ai partigiani. Ricordano i due fratelli Lopes Pegna: «Sette giorni siamo rimasti a Cotignola, ma che giorni: il signor Zanzi ci mandava, a mezzo di un suo collaboratore, da noi conosciuto come Bruno, alimenti, coperte, paglia su cui dormire, ci pare anche denaro, ma soprattutto amore, amore fraterno, amor di patria, fede nella bontà e solidarietà umane». E poi un aneddoto: «In quei lunghi sette giorni nostro padre ci leggeva Spinoza, l’Etica di Spinoza, e ce la spiegava, e ci faceva capire quanto di bello ci fosse, pur nei momenti più tragici, nella vita dell’uomo tanto da esser degna di esser vissuta, pur che fosse illuminata e riscaldata da un fuoco di bontà».
Vittorio Zanzi procura anche ai Lopes Pegna nuovi documenti di identità, e il 17 dicembre possono già ripartire, ma non per unirsi ai partigiani come previsto. «Il 17, purtroppo, ci fu consigliato di tornare a Colunga in attesa di ordini, date le difficoltà del momento a ingrandire il nucleo di Partigiani della Collina», spiegano i due fratelli.
Resterà comunque per sempre, nelle loro vite, il ricordo di quel piccolo paesino romagnolo che li ha ospitati per una settimana, e di quello sconosciuto commissario prefettizio, Vittorio Zanzi, che senza esitazioni li ha accolti e protetti.

Ricorderemo sempre la tranquillità e la semplicità con cui lo Zanzi lavorava per la Causa in quei tristi e perigliosi momenti, nei quali la Romagna era piena di truppe tedesche (si vedeva probabile uno sbarco degli Alleati su queste coste) e di pattuglie nostrane in camicia nera. […] Ricorderemo sempre la sua fiducia nella riuscita di ciò che voleva fare, la vigoria del suo animo e della sua azione, la sua potente influenza sui suoi collaboratori, che si muovevano e agivano in mezzo al nemico, sia nelle stanze del Comune, sia nella piazza e nelle viuzze del paese.

Il professor Ubaldo redige anche un corposo dattiloscritto, di quasi settecento pagine, redatto di getto subito dopo la liberazione, nel quale sono conservati i ricordi di quei difficili momenti, e il cui titolo è Io esistevo per il Fascismo.

I Muggia-Bonfiglioli
Più o meno nello stesso periodo trovano ospitalità a Cotignola anche alcuni membri della famiglia di Attalo Muggia, noto tisiologo bolognese, proprietario e primario della clinica Villa Bianca, in via Crociali. Membro della Comunità israelitica, nel 1938 è stato inserito nell’elenco dei medici discriminati per meriti fascisti, in quanto ha da sempre sostenuto il regime, essendosi anche iscritto al Partito fascista nel 1921. Continua quindi a lavorare nella sua clinica, sentendosi al sicuro per la chiarezza della sua posizione politica e anche per la sua conversione al cattolicesimo, declinando così più volte gli inviti dell’amico Sante Medri, un commerciante di Cotignola, a lasciare Bologna e a rifugiarsi in Romagna presso di lui. Purtroppo, però, le sue sicurezze svaniscono del tutto il 4 novembre del 1943, quando i tedeschi lo prelevano dalla sua clinica e prima lo incarcerano a San Giovanni in Monte, a Bologna, e poi lo deportano ad Auschwitz, cinque giorni dopo. Di fronte a ciò, ormai decisamente consapevole del pericolo che sta correndo, Giorgio, figlio di Attalo, anch’egli medico, insieme alla moglie, Liliana Bonfiglioli, e al loro figlio Marco, decide di lasciare Bologna.
La famiglia Muggia trova rifugio e protezione a Massa Lombarda, poco distante da Cotignola, presso la famiglia Cassani. E Giorgio si reca spesso in bicicletta proprio a Cotignola, dove si dedica alla cura di alcuni abitanti e dove si sono sistemati alcuni parenti: il cognato, Gino Bonfiglioli, con la moglie, Natalia Sinigaglia, e il loro figlio Bruno, ospitati dall’amico Sante Medri in piazza Mazzini.
Grazie ai nuovi documenti di identità forniti loro da Vittorio Zanzi, i Bonfiglioli si trasferiscono poi a Modena, con l’intenzione di dirigersi verso la Svizzera. La famiglia Muggia ripara invece nella canonica di San Severo, presso il parroco don Domenico Bucchi.

Gli altri ebrei rifugiati a Cotignola
Sempre a Cotignola trovano rifugio e accoglienza anche Vittorio Emanuele Sacerdote e la moglie, Sigismonda Minzolini, legata a Vittorio Zanzi da vincoli di parentela. Provenienti da Genova, dove abitavano, i Sacerdote giungono a Cotignola nella primavera del 1944, e vengono alloggiati presso la casa sfitta di Antonio Meandri. Purtroppo, Vittorio Emanuele Sacerdote muore, a 78 anni, all’ospedale di Cotignola, per l’aggravarsi delle sue già precarie condizioni di salute.
E non si tratta dell’unico ebreo rifugiatosi a Cotignola che perde la vita. Oltre a lui, infatti, durante i terribili mesi di guerra perde la vita anche Maria Grazia Jona, di soli quindici anni, colpita accidentalmente da una scheggia di granata, all’inizio del 1945. Era la figlia maggiore di Umberto Jona, ebreo originario di Ivrea e dirigente delle distillerie di Tresigallo (Fe) che, con la moglie, Ines Golfarelli, e una figlia più giovane, Pina, ha trovato accoglienza e rifugio a Barbiano, frazione di Cotignola, presso le famiglie Neri e Biancoli.
Ancora a Cotignola trova infine riparo e salvezza Marcella Costa Jacchia, di Lugo, mentre Luisa Del Vecchio, attesa in paese proprio nei giorni in cui Vittorio Zanzi viene arrestato, non giunge mai a Cotignola, ma riceve i documenti che il Commissario Prefettizio le ha procurato e che le garantiscono comunque la possibilità di trasferirsi dalle zone dell’Appennino modenese a Lugo, dove può contare sull’aiuto di alcuni parenti. La stessa Luisa Del Vecchio rivive quei drammatici momenti:

Sono stata nascosta sulle montagne del Modenese dai primi di novembre 1943 ai primi di maggio 1944, poi la mia permanenza colà ha cominciato a diventare pericolosa anche perché sprovvista di documenti. Ho avvertito i miei famigliari a Lugo della mia situazione pericolosa e nel mese di maggio mi ha raggiunto il signor Calamini – in bicicletta – latore di una lettera di mia sorella e di una carta di identità falsa rilasciata regolarmente dal Comune di Cotignola. Con questo documento e in bicicletta assieme al signor Calamini abbiamo raggiunto Lugo. […] Dopo pochi giorni avrei dovuto raggiungere a viso aperto Cotignola dove già il mio arrivo era atteso, sotto mentite spoglie. […] Ma io non ho mai raggiunto Cotignola.

Anche in questo caso, tuttavia, la coraggiosa azione di Vittorio Zanzi si è comunque rivelata decisiva nel mettere al sicuro la vita di Luisa Del Vecchio. «Ringrazio ancora tutte quelle buone e coraggiose persone di Cotignola che, allora ben consapevoli del pericolo, mi hanno validamente aiutata», ricorda Luisa.
L’azione di Vittorio, sempre supportato anche dalla moglie Serafina, continua indisturbata fino a quando, il 17 maggio del 1944, in seguito a una denuncia, viene arrestato e rinchiuso, assieme ad altri collaboratori e amici, nelle carceri di Ravenna. La motivazione è quella di aver aiutato i partigiani con armi sottratte all’esercito italiano, cosa in effetti vera. Tuttavia, soprattutto per la genericità dell’accusa e la mancanza di credibilità del delatore, vengono tutti rilasciati, ma Vittorio non è più commissario prefettizio. Malgrado ciò non desiste dall’azione intrapresa a favore dei perseguitati dal regime.
Nel 1987 il Comune di Cotignola ha inaugurato un parco dedicato alla memoria e alla solidarietà, e su un monumento eretto al suo interno appaiono i nomi dei sopravvissuti ebrei da un lato, e dall’altro quelli dei soccorritori, guidati dagli Zanzi e dai Varoli.
Il 25 marzo del 2002 Yad Vashem ha poi riconosciuto Luigi e Anna Varoli, e Vittorio e Serafina Zanzi come Giusti tra le Nazioni. (SNS)

 

Bibliografia  Aa.Vv., XXXV Anniversario della Liberazione. Documenti scritti e testimonianze, Comune di Cotignola, Cotignola 1980.
Aa.Vv., Vittorio Zanzi, Edit Faenza, Faenza 2005.
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Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione polizia politica, Fascicoli personali, b. 1480, Zanzi Vittorio fu Battista.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gabinetto, Onorificenze, Ordine “Al merito della Repubblica italiana”, busta 166, Zanzi Vittorio fu Battista.
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Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Vicissitudini dei singoli, b. 28, fasc. 867, Diario di Ada Valabrega Ottolenghi.
Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Raccolte e collezioni speciali, Istruttorie Yad Vashem, Vittorio e Serafina Zanzi.

MATERIALI MULTIMEDIALI

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Il paese dei giusti – 27/02/2022 >> Guarda il videoDocumentario “Cotignola città dei “giusti” Varoli e Zanzi” di Fabrizio Varesco >> Guarda il video
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